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Il segno del potere

29 dicembre 2008 - 28 agosto 2012

 



Ovvero, come il potere può, alle volte, essere caduco e del tutto temporaneo.

Episodio vero, di cui sono stato testimone e, anzi, diretta causa.


Correva l'anno 1983 e mi trovavo nel corridoio che dava alla palestra maschile dell'ITC Nicola Moreschi di Milano, celebre scuola forgia di serissimi e posati ragionieri. Ero in compagnia di alcuni miei compagni di classe quinta B ed ero, come al solito, quello che si distingueva per timidezza e scarsità di parole. A quell'epoca, epoca di pre-computer e pre-un sacco di cose tecnologiche, tra noi studenti era di moda sorvegliare sistematicamente le finestre dell'intero palazzo, per notare lo stucco dei vetri sostituiti da poco. Lo stucco era quindi stupendamente plastico e malleabile ed era il materiale adatto per farne le palline per le cerbottane tascabili (penne biro Bic senza l'apparecchiatura inchiostrante). Quindi lo raschiavamo via dalle intelaiature dei vetri quando era ancora tenero. Insomma, si era, anche se sedici-diciassettenni, bambinoni. Ovviamente chi riusciva a raccogliere la più grossa quantità di stucco era considerato molto "potente" perchè poteva sostenere lunghe battaglie, ma a me la cosa non importava e mi piaceva lo stucco solo perchè mi permetteva di plasmarlo per ottenere piccoli oggettini o imitazioni di altri oggetti. Per me era uno strumento creativo. Ne possedevo solamente una "modica quantità", veramente pochi grammi... In quel contesto veramente non ero nessuno, ma la considerazione dei miei compagni mi veniva dal fatto che ero utile per i temi in classe e quindi ero piuttosto rispettato.

C'era il mio compagno di banco Daniele (ciao!) che esibiva da molto tempo una enorme palla di stucco fresco e ben lavorato, untissimo e appiccicoso, delle dimensioni di un'arancia e del peso approssimativo di forse quattrocento grammi, frutto di mesi e mesi di scambi tra compagni e raccolta personale, a sprezzo di pericoli! Lo conservava gelosamente in un sacchetto e di tanto in tanto lo estraeva per impastarlo e tenerlo bene molle ed appiccicoso, sivispacemparabellum, come dicevano i latini. Eravamo in cinque o sei, e si stava chiacchierando delle solite cose e c'era Daniele, mentre camminavamo lentissimamente verso la palestra per la solita ora di ginnastica stanca e per i ripassi di tedesco, che giocherellava con la sua palla di stucco e continuava a tirarla per aria e a riprenderla in mano. Quasi sempre ci riusciva; cioè rarissime decine di volte la faceva piombare per terra (in Gran Bretagna, dalle parti di Oxford, si sarebbe potuto definire Daniele "Pastafrol Hands"). Il materiale era untissimo e quindi immaginate i dischetti rotondi di unto sul pavimento, cosa che se la bidella avesse visto, sarebbe risuonato il suo alto grido di dolore, con l'eco rimbombante per svariati secondi. I soffitti della nostra scuola erano dappertutto altissimi, tutte le aule erano enormi e il corridoio che dava alla palestra era una specie di galleria dell'altezza di quasi sei metri. La nostra scuola era ricavata da una stupenda caserma austriaca e all'interno dell'atrio mostrava una enorme targa in bronzo a commemorazione dei caduti del 1848. Questo per dire, tra le altre cose, la maestosità dell'immobile e il prestigio che ne derivava dall'essere studenti di simile istituto. Poi erano gli studenti, che fantasiosamente trovavano mille modi per dissacrare tale "maestosità" e tale "prestigio".

Ebbi lì per lì la pensata di fare un "esperimento", uno scherzetto innocuo e non avevo il minimo secondo fine... la mia idea era di lasciare, per mezzo dello stucco, un bel bollino di unto grigio sull'immacolato bianco del soffitto del corridoio. Lo dissi a Daniele e anche lui apprezzò l'archingegno: l'idea di fare apparire un dischetto grigiastro sul soffitto ci divertiva, e pensavamo alla faccia che avrebbe fatto Giovanni, il custode, e le sue parolacce meneghine che avrebbe tirato quando lo avesse notato. E poi immaginavamo scale e ponteggi per cancellare il fattaccio. Ridevamo come matti e Daniele cominciò a tirare in alto la sua pallina di stucco. Una volta troppo basso, una volta quasi giusto ma ancora senza lasciare alcuna traccia, una volta ancora e... pif, la pallottola di stucco rimase silenziosamente appiccicata al soffitto. E pareva proprio che apprezzasse la nuova sistemazione. Non aveva intenzione di ricadere.

Un secondo di silenzio tra noi. Poi Daniele cambiò espressione e noialtri scoppiammo a sghignazzare: Daniele aveva perduto il suo tesoro, e di colpo aveva perso tutto il suo potenziale bellico! La sua preziosissima pallina di stucco era rimasta saldamente appiccicata al soffitto, bellissima e marroncina e visibile a chilometri di distanza. Daniele cominciò a rincorrermi simpaticamente per picchiarmi, ma eravamo in troppi a ridere e la cosa era davvero buffissima, perchè ci consentiva di immaginare comunque più o meno le stesse cose che pensavamo prima, con in più il rischio che la pallina potesse un bel momento cadere su qualcuno.

La cosa NON avvenne e lasciai la scuola, dopo gli esami di maturità, sapendo che la pallina era ben salda al soffitto.

Morale: il potere forse logora chi non ce l'ha, ma averlo e perderlo è talvolta frutto di una leggerezza... e chi non ce l'ha, improvvisamente si sente molto meglio. E' bruttissimo perdere il tanto, mentre non è così brutto perdere il poco, perchè la distanza dal niente è molto piccola...








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